Descrizione

La baia di Torre dell’Orso è chiusa sul lato sud da un costone roccioso che prende il nome di punta Matarico (forse da madarós, che in greco significa “calvo”, in riferimento alla punta piatta e rocciosa). Sul costone, proprio in prossimità della baia, si apre una grotta, sopraelevata rispetto al piano della spiaggia. La cavità è nota come grotta di San Cristoforo e, insieme alla grotta della Poesia a Roca Vecchia, costituisce un’importante testimonianza di antico luogo di culto costiero. La grotta, infatti, ha visto una frequentazione come santuario dal IV sec. a. C. al XIII sec. d. C.

In età antica, tra IV e III sec. a. C., la grotta di San Cristoforo ha ricevuto una risistemazione, anche dello spazio antistante, e un intensificarsi della presenza umana. Poiché nello stesso periodo si assiste allo sviluppo del villaggio messapico di Roca, si tende a ritenere Roca Vecchia e Torre dell’Orso due siti nell’antichità tra loro strettamente collegati.

Nella grotta di San Cristoforo sono state rinvenute diverse invocazioni a divinità antiche non meglio identificate (in una iscrizione sembra che ci sia un riferimento ai Dioscuri), per propiziare il viaggio verso le vicine baie dell’Albania meridionale (vedi Da Torre dell’Orso alla baia dell’Orso: una rotta adriatica millenaria). Al III sec. a. C. risale l’iscrizione “FELICIOR /  ISPANUS /  PETIT AD DEO /  UTI SE TUTE E(T) /  TIMORI SI(NE) / OS TEN(EAT) / VADI” (“Felicior Hispanus chiede a dio di poter attraversare, in tutta sicurezza e senza alcun timore, la bocca dello stretto”). In età tardo-antica e medievale, in seguito alla cristianizzazione dei luoghi, la grotta ha assunto un nuovo nome, mantenendo però la sua funzione di santuario costiero: la dedicazione a San Cristoforo non appare casuale, poiché questo Santo “traghettatore” è protettore dei pellegrini e dei viaggiatori. È in questa nuova fase storica che compaiono sulle pareti della grotta il graffito di una nave da trasporto e numerose croci.

Oggi, molte delle testimonianze incise sulla roccia non sono più visibili, perché asportate verso la fine dell’Ottocento: alcune di esse sono esposte al museo archeologico “S. Castromediano” di Lecce.