Descrizione

Avevo appena compiuto dodici anni in quel 4 luglio dell’anno di Nostro Signore 1674.

Non ricordo bene come mi accorsi dell’arrivo dei turchi: forse sono state le campane della chiesa o forse le bestemmie del vecchio Paolino Petrachi.

Mio padre era fuori paese per affari; molti altri uomini erano nei campi e non potevano sapere cosa succedeva. Mia madre ci ordinò di stare zitti e di nasconderci, disse che usciva solo lei. Ero abbastanza abituato a disubbidire a mia madre e, dopo aver nascosto mio fratello Giosafatta in uno stipo della casa, uscii dalla finestra posteriore e salii sul tetto.

Da lassù, fattomi piccolo piccolo dietro il comignolo che spuntava in vetta agli spioventi, vidi tutto.

Vidi Narduccio Potì sul tetto del campanile della chiesa, che lanciava chianche da lassù sopra la testa dei pirati: uno lo ferì a morte, un altro cadde a terra in una pozza di sangue. Ci volle un po’, ma alla fine i turchi lo colpirono con i loro archibugi: Narduccio cadde morto, ma se n’era portati un paio via con sé.

Vidi portare vie tutte le donne della casa di Mario Candido, la moglie e le due figlie Giulia e Angelina: Angelina scalciava come una pazza, urlando e piangendo, ma la sorella non sembrava neanche viva, non si muoveva, non fiatava.

Vidi la vecchia Maria Mazzeo seduta davanti a casa, con i suoi capelli grigi sempre ben acconciati. Non si era scomposta, non aveva cercato di scappare come le altre donne. Un paio di uomini baffuti le si avvicinarono e le urlavano parole che non si capivano: mi sembravano versi di animali, non voci di uomini. Ma quello che disse la Maria lo capii bene: invitava i turchi a prendersela in quel posto. Quando quelli la sollevarono di forza, morse con così tanta violenza la mano di uno dei due che quasi gli staccò un dito. I pirati non ci pensarono due volte: uno la fece inginocchiare per terra e l’altro le tagliò di netto la testa.

Un turco arrivò sotto casa mia, spingendo mia madre dentro, tirandocela per i capelli. Quel figlio di cagna uscì, poco dopo, trascinando con sé mia madre e Giosafatta, e li portò via a cavallo. L’orrore mi pervase: non avevo nascosto bene mio fratello, non lo avevo protetto.

Quando mi sembrò che se ne fossero andati, tremante come una foglia, scesi dal tetto e corsi via.

Dalla piazza mi diressi verso il castello dei baroni Paladini, sperando di trovare aiuto. All’altezza della cappella dell’Annunziata, vidi uno dei turchi in lontananza e mi lanciai nella chiesa. Mi nascosi in un angolo, ma uno di quei cani feroci entrò e mi acciuffò. Quando fummo fuori, ero sicuro che mi avrebbe staccato la testa, come alla povera Maria Mazzeo. E invece rideva come un demonio e ridevano anche due altri suoi compagni, lì vicino. Mi strattonava per la maglia e mostrava agli altri due i miei vestiti e quelli ridevano forte. All’improvviso udii dei colpi di archibugio: i due turchi che mi deridevano la finirono, e caddero come sacchi pieni. Quello che mi teneva per la maglia si voltò di scatto, ma non ebbe tempo di far niente: una spada gli squarciò la gola in un attimo.

Davanti a me adesso c’era un turco per terra, con la faccia nel sangue, e un uomo su un cavallo scalpitante. Il sole dritto nei miei occhi non mi permetteva di vedere bene la figura, ma in quel momento, lo giuro, ero sicuro di una sola cosa: quel cavaliere era San Niceta, non c’era dubbio. San Niceta, sul suo “focoso destriero” (come diceva don Serafino nelle prediche) mi aveva salvato la vita.

E San Niceta mi parlò: «Come ti chiami?».

«Andrea» balbettai.

«Sei il figlio di Donato Macchia, vero? Corri al castello, la strada adesso è libera».

Scappai più veloce che potei e quando la guardia del castello mi vide arrivare, fece aprire rapidamente il portone.

Quel giorno furono diversi a morire per mano dei turchi e molti di più furono i giovani e le donne rapiti e condotti a Valona. Grazie all’intervento di alcuni monaci e dei baroni Paladini, mio fratello Giosafatta, insieme ad alcuni dei rapiti, fu riscattato tre anni dopo e ritornò a casa. Di mia madre, invece, non si seppe più nulla.

In quanto al cavaliere che mi salvò, solo anni dopo capii che doveva essere stato uno degli uomini del nostro barone Francesco Paladini, o lui in persona. Io non riconobbi quell’uomo perché era controluce e non si vedeva il volto. Ma non poteva essere San Niceta: il Santo non mi avrebbe mai chiesto il nome, un Santo il tuo nome lo sa e basta.

 

Il racconto è ispirato a fatti realmente accaduti a Melendugno il 4 luglio 1674 e anche i nomi dei personaggi (ad eccezione del narratore protagonista) sono reali, tratti dagli appunti che l’arciprete di allora, don Serafino Potì, annotò nell’Archivio Parrocchiale. Il prete definisce gli assalitori come “pirati”, “levantini infedeli”, “turchi”. In realtà, molto spesso questi predoni erano corsari barbareschi al soldo del sultano ottomano, e provenivano dal Nord dell’Africa, dai porti di Algeri e Tunisi. I corsari barbareschi assalivano spesso le coste italiane meridionali in generale e salentine in particolare, soprattutto in cerca di fanciulli e fanciulle da vendere sul mercato degli schiavi: era, questa, un’attività economica che assicurava buon profitto e che faceva dei regni barbareschi nordafricani delle vere e proprie multinazionali dello schiavismo attive in tutto il Mediterraneo.

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