Descrizione
Mentre nuotavo per contrastare le onde ed ero sicuro che sarei annegato da un momento all’altro, affidai l’anima al Cielo e pensai intensamente alla mia Elionor, che mi avrebbe atteso invano a Barcellona. Una terribile tempesta aveva messo a dura prova la nostra nave, prima di rovesciarla.
Quando la bufera si calmò, ero ancora miracolosamente vivo, aggrappato ad una tavola di legno; ma non vedevo nessuno dei miei compagni. Dopo qualche ora alla deriva, sentii una voce lontana dietro di me, che mi chiamava: mi girai e vidi Demetrios, uno degli abitanti di Corone che erano venuti con noi, in cerca di una nuova casa.
Avevamo lasciato la città greca di Corone da pochi giorni, in quel maledetto 1534: si era tentato di sottrarla al nemico turco, ma quando era arrivato l’esercito di Solimano l’unica via di scampo era stata abbandonare il campo, insieme a molti abitanti del luogo spaventati dalle ritorsioni turche.
Ma la fortuna non era stata dalla nostra parte: dopo la disfatta, la tempesta in mare.
E in quella grande massa d’acqua, sempre aggrappato alla tavola di legno, con l’arsura che mi torturava, io pregavo. Pregavo Sant’Eulalia, la santa di Barcellona, perché mi salvasse e mi permettesse di riabbracciare la mia Elionor. Disperato, in balia del mare, cominciai a vedere come in sogno le immagini di casa mia: la festa di Sant’Eulalia, con i balli sfrenati fino a notte tarda; i danzatori con i mascheroni di animali, tra le luci delle fiaccole; gli occhi di Elionor; lei, con il suo profumo di rose selvatiche e lavanda.
L’ultima cosa che vidi, prima di svenire, fu un gabbiano. Poi, più nulla.
Quando riaprii gli occhi, davanti a me c’era Demetrios, che era riuscito a portarmi in salvo ed ora mi rianimava. Poi pian piano mi accorsi che altre figure mi attorniavano: uomini che avevano l’aria di essere pescatori. Demetrios mi salutò: «Bentornato tra noi». Con le poche forze che avevo, chiesi un po’ d’acqua e subito mi accontentarono. Mi guardai attorno: era una minuscola insenatura sabbiosa tra due costoni di rocce, tutti bucherellati da grotte e grotticelle. Piccole barchette fluttuavano su un mare limpido, quasi irreale. A pochi piedi dalla spiaggia, in mezzo al mare, si ergeva un animale di roccia, come un leone disteso sulle acque a prendere il sole. Dietro di me, una chiesetta dal profilo lineare, con una campana che mi sembrò troppo piccola per produrre un qualche suono. Tutto era in una luce strana e sembrava che io stessi continuando ad avere le allucinazioni, come quando eravamo in mezzo al mare. Davanti a quello spettacolo della natura, però, si materializzò la realtà: la disfatta di Corone, la fuga, la morte di tanti compagni in mare. Le lacrime rigarono il mio volto quasi senza che me ne accorgessi, e mi sfogai in un pianto amaro e liberatorio.
Demetrios mi si sedette accanto e cercò di consolarmi: «Signore, non dovete rattristarvi: almeno siamo vivi e siamo approdati in possedimenti spagnoli, grazie a Dio».
«Grazie a Dio – gli feci eco – e grazie a Sant’Eulalia».
I pescatori mi mostrarono la zona: nelle grotte avevano le loro cose, le reti e gli attrezzi. Feci una ricognizione della costa circostante, dove diverse insenature si aprivano nella falesia. Più di tutto mi sorprese uno scorcio, un po’ più a nord del porticciolo: davanti a me, su un mare turchese, si stagliavano alti faraglioni, colonne di pietra, archi e scogli, che sembravano scolpiti da angeli venuti a mostrare agli uomini la sapiente potenza di Dio e il suo senso della bellezza.
Demetrios mi disse: «Ho parlato con i pescatori. Il posto si chiama Sant’Andrea, siamo ad una decina di miglia da Otranto. Dovremmo trovare il modo per farvi tornare in Spagna, signore».
«Non ancora, – gli risposi – non c’è fretta. Prima devo mantenere una promessa…».
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