Muratura a secco: 5 tipiche costruzioni del Salento.

Da sempre l’uomo plasma il territorio in cui vive per adattarlo alle proprie esigenze, che siano abitative, difensive o vere e proprie comodità. A Melendugno puoi trovare incredibili evidenze di questo rapporto uomo-natura a partire dai più antichi esempi di strutture megalitiche per finire alla tradizione dei muri a secco.
La grande bellezza del Salento non è dovuta solo al suo splendido paesaggio di terra e di mare e alla conseguente sensazione di libertà che si prova ritrovandosi immersi nelle ampie e tranquille distese di macchia mediterranea qui presenti.
Ciò che rende veramente speciale questo territorio è il legame che la popolazione ha creato con esso e il profondo rispetto, l’instancabile dedizione, che questa ha mostrato nel corso dei secoli verso la generosa fonte delle proprie risorse.
Anche oggi, in un mondo sempre più frenetico, globalizzato e tecnologico, questa tendenza non si è snaturata, anzi si è creata una profonda sinergia tra le ovvie esigenze di sviluppo economico e la ormai irrinunciabile necessità di una consapevole tutela ambientale.
A testimonianza di quanto detto basti pensare alle tracce lasciate dai nostri antenati e che, senza essere minimamente invasive, ricamano minuziosamente il territorio a memoria del loro passaggio.
Il riferimento è ai dolmen, menhir, specchie, paretone, trulli, che seppur riferibili a forme di espressione, a funzioni e a esigenze molto differenti tra loro, possono essere ricondotte nella grande tradizione costruttiva effettuata attraverso l’utilizzo esclusivo della risorsa rocciosa senza ulteriori aggiunte.
Un metodo che si è affinato sempre più sino allo sviluppo di tecnica che è diventata una vera e propria arte, quella della muratura a secco.
Forse può sembrare esagerato inserire tali antiche tipologie di costruzioni preistoriche in questo elenco, non fosse altro che in quel periodo a cui risalgono (i dolmen Placa e Gurgulante di Melendugno sono dell’età del bronzo, III millennio a.C.) non vi erano molte alternative alla posa a secco: i leganti quali la calce, la malta o il cemento non erano stati ancora inventati!
Per quanto si tratti di monumenti megalitici, che non erano certo di facile costruzione e richiedevano uno sforzo di ingegno se si pensa alla carenza di mezzi tecnologici a disposizione all’epoca, sono le strutture più semplici che l’uomo abbia mai potuto realizzare con la pietra per il numero di elementi strutturali impiegati: per il menhir ne basta uno, mentre per il dolmen almeno tre.
Se il primo si mantiene in piedi solo se conficcato in verticale nel terreno (infatti è anche detto pietra fitta), il secondo ha bisogno di due elementi per pilastri e di uno orizzontale di copertura che fa da trave; ma in conclusione, ciò che ne rende stabili le strutture è esclusivamente il peso e un gioco di equilibri.
A vederle con occhio distratto e disattento sembrano dei semplici cumuli di pietre, in apparenza resti di qualcosa che è crollato. Eppure si tratta di manufatti megalitici, edificati probabilmente dai Messapi secondo una tradizione originaria del neolitico, che si compongono di una distesa di pietre ammassate l’una sull’altra per elevarsi in altezza.
Il dibattito sulla loro funzione specifica è tuttora aperto ma recenti studi affermano che in generale esse consistono in luoghi di avvistamento parte di un sistema difensivo più complesso. Infatti sono disseminate lungo tutta la zona costiera e comunicano a vista con tutte le altre (con l’accensione di fuochi o segnali di fumo), avendo talvolta anche dimensioni imponenti che svettano sulla pianura circostante.
Come si diceva vi è una certa difficoltà nel riconoscerle che pone anche gli esperti di fronte a dei problemi di attribuzione generando ipotesi contraddittorie nel dibattito scientifico. La controversia sorge quando si analizzano quelle di dimensioni più piccole, soprattutto come quando vicino a queste sono stati rinvenuti resti scheletrici che le farebbero identificare più come dei tumuli sepolcrali, mentre in assenza di altri elementi nulla si potrebbe dire se non che siano un ammasso di materiale di risulta.
Quando le dimensioni delle specchie aumentano invece, il dubbio è che potessero essere usate anche come ripari abitativi semplici e temporanei in seguito crollati. Tuttavia la tesi iniziale quali punti di vedetta rimane la principale ed è comunque avvalorata dall’associazione di queste specchie con un altro elemento costruttivo messapico con funzioni difensive: il cosiddetto paretone.
Il salento, per la sua particolare conformazione e posizione nel mediterraneo, è stato frequentato da varie popolazioni nel corso dei millenni quindi soggetto a numerose incursioni e lotte per la conquista del territorio. Serviva dunque, da parte di chi si insediava, soddisfare l’esigenza di provvedere alla costruzione di un efficace apparato difensivo che potesse quantomeno arginare le ondate delle aggressioni dell’invasore di turno.
Un sistema, tanto efficace per quel periodo quanto specifico per la Terra d’Otranto, è stato introdotto dai Messapi durante l’età del ferro: i Paretoni. Si tratta dei primi rudimentali muri di cinta, larghi alcuni metri e privi di fondazioni, che i messapi costruiscono a difesa dei propri villaggi sfruttando un misto di pietre squadrate e pietre informi incastrate a secco e spesso poggiate su un grande masso spianato che fornisce una base uniforme e conferisce stabilità.
Considerato l’utilizzo di pietra calcarea compatta e durissima per comporli, non potevano essere stati costruiti prima dell’introduzione tecnologica degli utensili in ferro, perché sarebbe stato difficile estrarre questa materia prima con facilità e in gran quantità utilizzando gli attrezzi in rame o in bronzo della precedente epoca.
I resti di queste mura sono diffusi in tutto il Salento e come si diceva poc’anzi sono frequentemente rinvenuti associati alle specchie, inglobati nel circuito murario.
Costruiti dalle sapienti mani di instancabili agricoltori (contadini), hanno forme e sembianze riconducibili ai famosi trulli di Alberobello. A differenza di questi ultimi, che si concentrano raggruppati nella medesima località, i pajari salentini sono strutture altrettanto affascinanti più spesso rinvenibili isolate a “guardia” di estesi fondi coltivabili.
I contadini li costruivano per necessità di disporre di un riparo, per trovare refrigerio dal caldo eccessivo, oppure avere un deposito temporaneo di parte del raccolto o degli attrezzi di lavoro. In alcuni periodi dell’anno, in cui il lavoro si faceva più continuo ed intenso, questi ambienti potevano essere utilizzati come abitazione alternativa della famiglia contadina, laddove non vi fosse la possibilità di disporre di una masseria.
Pajare e muri a secco sono alcuni elementi tipici dell’itinerario costruzioni tradizionali
Arrivati alla fine di questo elenco non possiamo non parlare di ciò che costituisce praticamente la base di partenza per la costruzione delle strutture sin qui descritte ma che infine è diventato anche un elemento a sé stante, riconoscibile e identitario per il salento: il muretto a secco.
Più basso e meno spesso di un muro difensivo, svolge la funzione tradizionale di delimitare una porzione di terreno agricolo anche se oggi, vuoi per valorizzare la tecnica vuoi per moda, viene reinterpretato in chiave moderna per la recinzione di agriturismi o abitazioni private per conferire un aspetto rustico che ben si integra con l’ambiente rurale in cui spesso sorgono.
In origine sono stati costruiti soprattutto per un altro aspetto pratico che era quello di trovare una sistemazione, che avesse uno scopo, all’enorme ammasso di materiale roccioso di risulta ottenuto dallo sbancamento dei terreni da destinare alla coltivazione. Una soluzione di reimpiego dunque che si inserisce nel filone retorico sempre attuale del riciclo: non si butta via niente.