Melendugno e le invasioni turche: l’impatto sul territorio di San Foca e Roca

Il territorio di Melendugno, soprattutto nei suoi casali limitrofi e nella sue marine, fu oggetto di numerosi attacchi durante il periodo delle invasioni e scorribande turche, dal XV al XIX secolo. I castelli, le torri costiere e le masserie fortificate poterono solo limitare in qualche modo i danni dei numerosi attacchi.
La ragione che indusse i turchi a puntare Roca è la sua posizione. La città, infatti, rappresentò un avamposto logistico idoneo a essere usato, dagli invasori, come trampolino di lancio per sferrare l’attacco finale alla città di Otranto.
Le mire di Maometto II, all’epoca Sultano dell’Impero Ottomano, si spostarono verso il meridione d’Italia dopo la guerra vinta su Venezia nel 1478. Durante i trattati i pace seguiti alla battaglia di Negroponte anche la spinta “politica” di Lorenzo il Magnifico di Toscana spostò di fatto la minaccia turca dal totale dominio del Mare Adriatico al Sud Italia, che già in passato faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente.
Le invasioni turche colpirono a sangue Roca Vecchia. Nel 1480 la città fu depredata, e subì numerosi danni. I documenti degli anni raccontano il perché del successo dei turchi, già forti di una superiorità numerica e tecnologica rispetto alle guarnizioni locali. L’armata, si legge, sbarcò di notte tra Frassanito e i Laghi Alimini senza essere scoperta da nessuno.
Addirittura si narra che Roca, essendo ben fortificata, non poteva essere presa militarmente senza un traditore rocano, abitante nella città e al soldo dei turchi. Costui indicò verosimilmente il punto di sbarco meno esposto e meno vigilato dalle sentinelle.
Una volta conquistata, Roca fu per i turchi un vitale porto di collegamento con Valona. La tratta, purtroppo, fu percorsa dai numerosi prigionieri melendugnesi e salentini rapiti dalle truppe saracene durante gli attacchi. Il comandante in capo dell’armata turca Ahmed Pascià costruì a Roca il suo Stato Maggiore in previsione degli attacchi da sferrare agli altri casali salentini mirando finanche alla città di Lecce, non presa mai.
Espugnata Otranto, Ahmed Pascià abbandonò Roca per poi riconquistarla nella seconda fase della guerra, tra il 1480 e il 1481, annate in cui si registrò anche la prima ondata di rivolte del popolo contro l’invasore turco.
Gli abitanti di Roccavecchia, quando la città fu definitivamente conquistata dai Turchi, cercarono di abbandonare la città di notte in fretta e furia. Chi ebbe la sfortuna di incontrare i soldati ottomani subì la stessa sorte dei cittadini di Otranto.
Gli esuli di Roca, dopo la distruzione del 1480 e dopo le successive del XVI secolo, si dispersero nell’entroterra orientale salentino, andando ad ingrossare diversi casali. Melendugno, Vernole, Calimera, Borgagne, Pasulo, Castrì Francone e Guarino, Carpignano, Ussano (sito nei pressi di Cavallino), Caprarica e soprattutto Roca Nuova, a 3 chilometri da Roca Vecchia, fanno parte di un’area storicamente definita come ciclo rocano. Altri, dediti soltanto al mestiere di marinaio, popolarono le grotte delle vicine marine di San Foca e Sant’Andrea.
I pellegrinaggi che ancora oggi caratterizzano molti di questi centri verso il Santuario di Roca Vecchia si potrebbero leggere, oltre per la devozione a Maria Santissima di Roca, anche come un retaggio storico portato avanti sin dallo spopolamento. Melendugno, nonostante siano passati secoli dal maledetto 1480, conserva il suo legame di appartenenza con le sue radici rocane.
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Una nuova vita di Roca, prettamente militare, si ebbe dopo la distruzione del villaggio. Grazie alla nuova alleanza degli stati italiani, spinta anche dal Papa, contro l’avversario turco, da colpire con una controffensiva, il castello venne ristrutturato e rinforzato secondo le tecniche rinascimentali.
Le invasioni, e i frequenti pericoli vissuti nei villaggi, dettero origine a una leggenda, tramandata nei secoli dagli abitanti. Si narrava che in un vecchio libro del XVII secolo scritto dai monaci basiliani all’interno dell’Abbazia di San Niceta, fossero riportati i luoghi precisi dove erano nascosti numerosi tesori, le cosiddette Acchiature.
Probabilmente, tra il XV e il XVI secolo, molte famiglie del circondario di Melendugno, per paura che le loro ricchezze potessero cadere nelle mani degli infedeli, pensarono bene di occultare i loro risparmi segnalandoli ai padri basiliani, i cui monaci amanuensi registrarono su un brogliaccio i luoghi dove furono nascoste queste acchiature.
Questo libro, sempre secondo la leggenda, fu portato a Scutari, in Albania, regalato da un giovane monaco basiliano ad uno schiavo melendugnese, che riuscì a riportarlo nella terra natìa. Tralasciando la leggenda, è vero, e lo si evince dai documenti dell’epoca, che alcuni di questi schiavi rapiti dai turchi riuscirono a tornare nel Salento e assunsero il cognome dei signori che prima servivano.
Le scorrerie continuarono anche dopo la disfatta turca nella Battaglia di Lepanto (05/10/1571), la prima vera vittoria delle forze armate provenienti da paesi di fede cristiana contro quelle turche, che di fatto rallentarono, ma non fermarono, l’espansione turca verso il Mediterraneo. La vittoria della Lega Santa (armata finanziata dall’alleanza tra Impero Spagnolo – che comandava anche su Sardegna, Napoli e Sicilia – e altri stati italiani, tra cui la sempre ambigua Repubblica di Venezia, la Repubblica di Genova, lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana) fu soltanto uno stop alla prima grande ondata di vittorie delle truppe ottomane, che continuarono a penetrare in Europa, seppur con minore intensità, anche dopo la sconfitta nel Golfo di Corinto.
Per comprendere i danni delle continue scorrerie turche nel Salento si può ricordare lo sbarco dell’agosto 1621, avvenuto sulla costa di Otranto tra Sant’Emiliano e Punta Palascia, quando le truppe turche furono costrette alla ritirata da un battaglione messo a disposizione dai cittadini locali, baroni locali, religiosi e persino privati cittadini arruolatisi nelle masserie.
Le violenze e i saccheggi dei corsari ottomani continuarono nel XVII secolo Questo triste fenomeno è raccontato sulle annotazioni rinvenute sui certificati di nascita. Emblematico è il racconto trascritto a margine di un certificato di nascita, datato 25 gennaio 1651:
“Nell’anno del signore 1674 il giorno 4 del mese di luglio il casale di Melendugno fu spopolato. Dagli infedeli levantini, a questa famiglia, fu rapita e tratta in schiavitù Giulia, a nulla (valsero) i lugubri e strazianti gemiti della ragazza. Serafino Potì, arciprete”. La ragazza fu quindi rapita a 23 anni e di lei non si seppe più niente”.
Un racconto della battaglia fu invece annotato a margine di un certificato di nascita sempre nel luglio 1674:
“Nell’anno del Signore 1674, il giorno 5 del mese di Luglio, Leonardo Potì, figlio del fu Filippo e marito di Caterina Stefàno di Melendugno, di anni 53 circa, nella mattina precedente in cui i Turchi irrompevano, mentre uno dei custodi che vigilava sopra il tetto del campanile di questa Chiesa, nel medesimo momento, suonate prontamente le campane in segno di guerra (dando l’allarme), gettò sopra i Turchi dei lastroni, e già esplosa la mischia da parte dei combattenti infedeli nella piazza del presente paese fu trapassato al fianco da palle di fuoco; rese l’anima a Dio in casa, il cui corpo in giorno 6 fu sepolto nella predetta Chiesa parrocchiale (…) Don Serafino Potì, arciprete”.
Un altro dramma è sintetizzato in questo documento:
“Nell’anno del Signore 1674, il giorno 4 di luglio, Maria Mazzeo, dei fu coniugi Lupantonio e Antonia Sboti di Melendugno, poiché di prima mattina, questo paese fu spopolato a causa dei Turchi, mentre si rifugiava nella chiesa, fu catturata in corsa, riluttante di andare con essi, in un momento le fu tagliata la testa con un colpo, nella medesima strada rese l’anima a Dio in comunione della Santa Madre Chiesa all’età di 65 anni, il suo corpo fu sepolto il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di Melendugno. In fede…Don Serafino Potì, arciprete di propria mano”.
La diocesi di Lecce e il Regno di Napoli stanziarono dei fondi per la ricostruzione dei villaggi, investendo i proventi della cancelleria diocesana ed esentando da tasse i proprietari terrieri di Melendugno.
Il commercio degli schiavi, perpetrato soprattutto dai corsari barbareschi al soldo del sultano ottomano, fu un flagello che durò per secoli. Il Salento fu spesso depredato della sua gente, venduta sui grandi mercati di Valona, Tunisi e Algeri. È stata, questa, un’altra espressione della guerra che ha contrapposto la Cristianità alle mire espansionistiche turche: dall’altra parte, i cavalieri di Malta hanno anch’essi rimpolpato il mercato schiavistico, riempiendo di fatto le case dei nobili leccesi di servi provenienti dal mondo islamico.
Soltanto agli albori del XX secolo, durante la caduta della potenza militare e politica dell’Impero Ottomano, finì la piaga delle irruzioni turche, con contemporanea risalita economica e militare dell’Italia e di tutta l’Europa occidentale.
Le continue violenze e vessazioni subite durante il periodo delle invasioni ottomane coniarono un detto che ancora oggi è forte nella parlata popolare. “Mamma li Turchi”, esclamazione di terrore, raccontava il continuo pericolo che il Salento, e l’intera Italia Meridionale, viveva con queste invasioni all’ordine del giorno. Oltre che come grido di terrore, la frase era urlata per le strade, anche a mo’ di passaparola, per annunciare l’allarme dell’invasione.
Altri detti si diffusero in Puglia durante quel periodo: il “Ca te pûezze vedè mméne de Turchje” (Che ti possa vedere cadere in mano ai Turchi) da dire a una persona odiata, “Do’ turchi e do’ diavuli su’ quattro dimogni” (Due turchi e due diavoli fanno quattro demoni), oppure “Nu cresce erba a ddu passa cavaddu de turchi” (Non cresce erba dove passa un cavallo dei turchi).
Quasi una scoria indelebile nella memoria dell‘immenso dolore lasciato dai Turchi in questa terra è invece il lemma contadino: “Li mucchi pàrune Turchi e le spùngule pàrune spate” (I covoni di grano sembrano turchi e le spille sembrano spade), questo un adagio che racchiude quanta impressione potevano suscitare nei contadini tali immagini, poiché li riportavano col pensiero alla scenografia degli sbarchi saraceni, tra vele, turbanti e armi bianche quali le sciabole, con le quali erano veloci nello sgozzare o decapitare.