13 Settembre 2021

Il ferribotto

 

L’ingegnere Giacomo Buonomo aveva un sogno: voleva che la capitale dell’impero romano e quella dell’impero bizantino si ricongiungessero. Roma-Costantinopoli, andata e ritorno.

Per questo un giorno partì verso la terra d’Otranto, in quello che doveva essere il punto nevralgico del percorso, il ponte verso i Balcani. Ci vollero giorni perché l’ingegnere partenopeo riuscisse a raggiungere la costa adriatica partendo da Napoli. Fu anche in quel momento che realizzò quanto fosse carente e pietosa la linea ferroviaria che collegava i maggiori centri del Meridione d’Italia. Lo sapeva già, lo aveva studiato, ma viverlo sulla propria pelle è tutta un’altra storia.

In fondo era per questo che si era intestardito nel suo sogno, per migliorare le condizioni delle linee ferroviarie meridionali, anche quando molti colleghi gli avevano detto: «Lasci perdere, figuriamoci se da Roma riescono a realizzare una cosa del genere! Se ci fossero ancora i Borbone, forse qualcosa si poteva fare, ma con questi!…».

E invece Giacomo Buonomo ci credeva fortemente al progetto, che si concretizzò nella sua mente nei primi anni del nuovo secolo. Qualcuno prima di lui, pochi anni prima, lo aveva già tentato, ma quelli non avevano capito che Durazzo era la scelta sbagliata e per questo il loro disegno era naufragato: la scelta giusta era Valona.

In primis bisognava far arrivare il treno da Roma a Lecce e da lì fino alle coste adriatiche. Un servizio di ferribotto (un traghetto, per intenderci) avrebbe portato uomini e merci sull’altra sponda del Canale d’Otranto. Poi si trattava di costruire una linea ferroviaria di ben 260 km da Valona fino a Monastir e lì collegarla con quella già esistente, che da Monastir arrivava fino a Costantinopoli, la ferrovia del famoso Orient Express. Il progetto prese il nome altisonante di Transbalcanica italiana.

Un’impresa titanica, Buonomo lo sapeva; ma un’impresa che avrebbe dato lustro all’Italia, al piccolo regno che voleva anche lui affacciarsi sullo scacchiere dei grandi imperi europei.

Quando andai ad accoglierlo a Lecce e conversai con lui davanti ad una gustosa cremolata, trovai un uomo dal fare deciso e irreprensibile. Una carrozza ci portò (non molto agevolmente) fino alla costa. E fu allora che vide per la prima volta Torre dell’Orso. L’ingegnere rimase incantato, ed io, innanzitutto come suo collega e poi come padrone di casa, gli spiegai quanto quella spiaggia di sabbia finissima sarebbe stato l’approdo ideale per chi fosse venuto dall’Oriente, come lo era stato fin dall’antichità. Sarebbe stato facile far venire il treno da Lecce a Torre dell’Orso, su un terreno tutto pianeggiante, e non ci sarebbe voluto neanche tanto per costruire un porto adeguato, in una rada esente da insabbiamento. Torre dell’Orso era la soluzione; gli dissi: «Sapete che dall’altra parte del Canale, vicino Valona, c’è una spiaggia con lo stesso nome? La baia dell’orso si chiama. Questo è il punto più stretto di tutto il Canale e, come tale, capirete che sarebbe il più opportuno».

Al tempo ero meno disincantato di oggi e a queste cose ci tenevo, a fare della mia terra un luogo nuovo, una provincia all’avanguardia, aperta al mondo intero. Sognavo signorine vestite di amoerre turchino, con ampi cappelli e valigioni da ammazzare un facchino, che potessero scendere dal ferribotto nella baia di Torre dell’Orso, con la bocca aperta, ad ammirare lo spettacolo della natura, accompagnate da istrioniche guide turistiche.

E forse le sognava anche l’ing. Buonomo; ma quando lasciò la Puglia era sempre più convinto di preferire Otranto a Torre dell’Orso, nonostante il mio parere e quello della Camera di Commercio di Lecce, chiamata ad esprimersi sul progetto.

Ad ogni modo, furono tutte vane discussioni le nostre. I viaggiatori e i mercanti, che dal cuore dell’ormai tramontato impero ottomano sarebbero dovuti arrivare a Roma attraverso la Transbalcanica, non li vedemmo mai. Vuoi la guerra, vuoi gli interessi politici, vuoi la carenza di fondi, insomma il sogno di Buonomo (e il mio) si infranse contro una montagna di intoppi burocratici. Il ferribotto per collegare Valona con la costa adriatica del Salento non si fece mai e Torre dell’Orso rimase “un piccolo porto del Salento forse destinato a un grande avvenire”, come lo definì il giornalista Leonardo Azzarita nel 1918. Questo grande avvenire lo abbiamo atteso a lungo e invano.

Lascia un commento

La tua email non sarà mostrata.

Skip to content