19 Settembre 2018

Come selezionare il pesce: vita da pescatore.

Reti da pesca

 

Il territorio marino di San Foca, ricchissimo di qualsiasi specie ittica, è stato da sempre oggetto di attività di pesca. La vita quotidiana della marineria era infatti scandita dai tempi e dagli orari della pesca, motore della storica località.

Il pescato era così selezionato nel seguente modo:

a) Malepisci: così erano chiamati i pesci di poco valore commerciale per l’epoca, come le ricciole, i ricci, i ranseoli (in dialetto ranciculi), le cicale, le cozze e le cozze penne, specialità che avevano la caratteristica di avere la punta infissa nella sabbia mentre la parte superiore affiorava dalla superficie del mare.

Tra i malepisci dell’epoca rientravano anche specie che oggi sono invece considerate tra le più apprezzate, facenti parte del cosiddetto pesce azzurro. I seguenti erano tutti pesci considerati “poveri” e adoperati per sfamare la famiglia. Acciughe, cefali, rascie, polpi (in dialetto purpi), vope (vernacolmente dette ope, masculari se di grosse dimensioni). Stessa storia riguardava la razza affine alle precedenti, detta spicaluri, e i pesci detti scangi di piccole dimensioni (lucerne, triglie, scorfani, tremoli, occhiate, ronghi e sarpe).

b) Bonipisci: i pesci dall’ottimo valore commerciale sono: le spigole o branzini, le seppie, le murene, i dentici, gli sgotti e le cernie. Questi prodotti provengono dalla pesca d’altura. Storicamente, oltre alla vendita all’ingrosso e al dettaglio, questi pesci hanno imbandito le mense dei baroni di Melendugno o di altre nobili famiglie salentine.

I pescatori adoperavano, e talvolta adoperano tuttora, alcuni strumenti caratteristici della pesca, spesso noti con delle parole in vernacolo melendugnese.

  • La Cantàra è un’unità di misura che corrisponde a un quintale
  • Lu Conzu, uno dei principali attrezzi da pesca. Esso è fatto da una cima molto robusta su cui sono legate le palamare (dei fili provvisti che servono per un determinato tipo di pesca). Nell’uso “dellu conzu” bisogna fare attenzione all’intreccio tra due palamare o fili paralleli che, se imbrigliati, diverrebbero inutili per la pesca. Le funi sono sorretti da sugheri e piombi e, a seconda delle profondità che si vuole toccare, si utilizza un piombo più pesante. Si parla di “conzu de funnu” per quello che si vuole portare in profondità.
  • Le Mazzare sono dei pesi rudimentali fatti con comuni pietre che vanno posti ai lati del conzo.
  • La coffa è un recipiente dormato da una cesta di vimini (dal diametro medio di 60-70 cm) con la sommità ricoperta da sughero su cui si fissano gli ami.
  • Li cistieddhri ddumati (i cestelli luminosi). In mare le ceste in legno sono degli attrezzi galleggianti utilizzati come segnalatori luminosi e sonori. Usando più segnali insieme si crea anche un effetto sonoro affinché gli altri marinai possano individuare le reti che già ci sono in mare. Il cestello è formato da una base galleggiante in sughero su cui poggia un arco fatto in canne; nella parte centrale superiore è posto poi un lume a petrolio, corredato da una campanella appesa. Il mantenimento a galla è poi assicurato da un contrappeso di pietra su cui vi è un foro creato per far passare la cima che lega rete e cestello.
  • Lo scandaglio (scannaju) è utilizzato prima di adagiare a terra “lu conzu“. Con lo scandaglio si calcola la profondità del mare e si conosce così la provenienza delle correnti marine.
  • La sesula era una piccola paletta di legno utilizzata per togliere l’acqua marina entrata nella barca
  • “Li Pajuli” sono dei riquadri di legno posti come basi pavimentali all’interno della barca. Il giusto posizionamento di questi pezzi di legno permette il camminamento all’interno dell’imbarcazione e copre le corve, ossia le strutture portanti dello scafo.

Un capitolo a parte meritano le bilance usate per pesare il pescato.

Lo strumento più utilizzato era noto dialettalmente come iddhranzia. Un’asse di legno faceva la leva tra due bracci uguali; all’estremità vi erano due piatti di vimini (cisti) o di rame. Uno era più grande: lì si poneva la merce da pesare. L’altro piatto, più piccolo, era destinato ai pesi.

Vi era poi la stadera, lemma variato dialettalmente nelle due varianti statera o statila. S’indicava con questi termini la bilancia a bracci di leva disuguali, con un solo piatto e un peso costante che scorre sul braccio più lungo, il quale è graduato.

Dalla prima metà del XX secolo si cominciò a vedere anche a Melendugno la bilancia romana detta in dialetto bascula. Il funzionamento era simile a quello della stadera, ma lavorava su grandi dimensioni.

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