19 Settembre 2018

Antichi mestieri del Salento: il Frantoiano

In Terra d’Otranto l’olivocultura è praticata almeno a partire dalla tarda età del Bronzo. In questo periodo si coltivavano gli olivastri presenti sul territorio secondo quanto appreso seguendo le tecniche e le conoscenze trasmesse dalle popolazioni egee. Queste tecniche si sono poi evolute nei secoli e si è giunti, in epoca romana, al trapetum, l’antenato dei “trappeti” salentini (i frantoi ipogei) che si sono mantenuti in vita fino all’Ottocento.

Frantoio Sciurti: la molazza
Frantoio Sciurti: la molazza

Il rapporto tra l’uomo e l’olivo ha radici millenarie. Risale infatti a quasi 6000 anni prima dell’era cristiana la trasformazione dell’olivo selvatico in olivo coltivato, avvenuta ad opera delle popolazioni che occupavano le regioni litoranee del Mediterraneo Orientale sull’attuale costa siro-palestinese.

Il frantoiano, trappitaru in vernacolo, era tra i mestieri più faticosi dell’epoca. Al notevole sforzo fisico richiesto dal lavoro si aggiungeva il disagio della lontananza dalla famiglia per tutta la durata della campagna di lavorazione delle olive. Occuparsi di muovere gli ingranaggi e adoperarsi a tutte le attività legate alla produzione dell’olio (svuotamento delle olive nella macina, svuotamento della pasta di olive ecc…) richiedeva un fisico robusto e forza fuori dal comune.

La squadra di frantoiani era generalmente composta da 4 uomini di giovane età e da un “mozzo” (detto turlicchiu) che badava agli animali e rimestava la pasta delle olive sotto la macina con una pala. Il gruppo era volgarmente chiamato ciurma, un termine che richiama il linguaggio marinaresco. Questo termine però potrebbe non derivare soltanto dal caso: molti frantoiani erano infatti pescatori che durante l’estate lavoravano sulle grandi barche prima della stagione invernale spesa per la lavorazione delle olive.

Frantoio Sciurti: i torchi sullo sfondo, in primo piano le cisterne interrate
Frantoio Sciurti: i torchi sullo sfondo, in primo piano le cisterne interrate

A capo di questa squadra vi era il nachiro (dal greco naukleros, nocchiero). Continuano quindi le similitudini marinaresche! La figura del nachiro era autoritaria: impartiva ordini, stabiliva turni di lavoro e redistribuiva, a suo stretto e insindacabile giudizio,  le offerte che venivano fatte dai clienti del frantoio e, infine, benediceva per primo il cibo e dava inizio alla consumazione dei pasti.

La quasi reverenza dei frantoiani nei confronti del nachiro è descritta nel significativo detto salentino “quandu lu nachiru cala, calane li trappitari”, ossia “quando il capo immerge il cucchiaio nel piatto lo immergono i frantoiani”.

Il lavoro dei frantoiani, infatti, iniziava ad ottobre e terminava a marzo-aprile. L’intensità dei loro compiti impediva loro delle lunghe pause. Il frantoio, di fatto, diveniva la casa dei frantoiani per metà anno. Le giornate erano scandite dai turni imposti giorno e notte e, salvo degli sporadici ritorni per Capodanno, Natale e la Festa dell’Immacolata, non ci si spostava dal paese dove si lavorava.

All’interno del frantoio non c’era molto tempo per alimentarsi con cibi elaborati. La dieta dei frantoiani consisteva prevalentemente in legumi e verdure accompagnate con pane e olio d’oliva. I pasti venivano serviti in una grande pentola in ceramica e, da tale recipiente, prima il nachiro e poi tutti i frantoiani attingevano a turno con il proprio cucchiaio.

Ingresso Frantoio Sciurti
Ingresso Frantoio Sciurti

L’immagine del frantoiano però non era soltanto quella di un uomo strettamente dedito al lavoro. S’imputava proprio alla faciloneria dei frantoiani la diminuita qualità dell’olio, a tratti inadatto per gli usi alimentari.

Scriveva Giovanni Presta (un famoso medico salentino che s’impegno nella ricerca finalizzata a migliorare la qualità dell’olio): “La malizia, l’imperizia, la infingardia dei frantoiani ricusa ostinatamente di stringere e redirre a consistenza di essere rimacinate le ulive di prima infrantoiata in sole sei ore, sostenendo a fermo, che non si possono ridurre in tale stato, se non compiute esattamente le dodici ore (…) Ma tutto ciò è, oltre le ore di riposo, e oltre il tempo di andar in giro per lo paese vendendo la sansa, vogliono essi ancora le ore del loro divertimento, talché, caricati in fretta i torchi, se ne vanno vagando per la piazza, o per le bettole a sbevazzare”. 

In ogni caso, la natura molto faticosa del lavoro esponeva i frantoiani a molti effetti collaterali. I mesi vissuti a stretto contatto con animali in ambienti pressoché angusti portavano a molte malattie che colpivano i lavoratori a causa della mancanza delle basilari condizioni igienico-sanitarie.

La prolungata lontananza dalle famiglie e dai legami poi faceva venir meno la capacità di questi uomini di socializzare con il resto  della comunità e anche con la propria famiglia, mantenuta però con l’accettazione di un lavoro così sfiancante e pieno di sacrifici.

 

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